Il prato per le pecore, le oche, le galline sostituito da un tappeto di Dicondra. Sempre verde, ben rasato, morbido, una pennellata di colore rinnovata ogni giorno.
La casa colonica (il casale) diventa un’altra cosa. Un’altra casa. Non più la dimora del contadino, anche se vecchio, pensionato o forse morto. Diventa un corpo estraneo nel podere. Bello come una fotomodella inquadrata tra le macerie della guerra in Siria.
Diventa un corpo che indica la separazione. Non terra, non campo da arare, dove guardare crescere la vita che dà la vita. Un arredo urbano, un semplice – forse deprimente e lontano – arredo urbano.
Per fortuna oggi ci sono i tuoni che promettono pioggia (salvo poi smentire se stessi, quasi fossero uomini al potere). Se arriverà e non sarà devastatrice, allora finalmente si potrà iniziare a lavorare sulla/con la terra. Qualche falsa semina, morganature, una buona passata di ripuntatore. Poi preparazione per le semine. Niente chimica, fa male alla terra. Niente sementi comprate dalla catena del valore globale, solo sementi del raccolto precedente che fanno bene alla terra (oltre che al reddito del contadino), quella che riproduce se stessa e ti fa vivere.
Se potessi volare a dieci metri d’altezza e poi salire saresti colpito dalle tante sfumature del suolo prodotte dal lavoro, dall’erba rinsecchita, dal vento, dal sole, dalle bestie al pascolo. Dalla rugiada – poca in agosto – della notte. I colori al mattino quando la notte comincia a confondersi con l’alba hanno sfumature più marcate, ombre più ampie ancora ricoprono gli avvallamenti o minuscole porzioni di polvere superficiale pronte a volar via se si alza un leggero sospiro di vento. Al primo sole.
Allora nascono mille domande. Chissà da quanti millenni ci portiamo dentro il sapore della terra. Come è nato dentro di noi. Perché questo legame non è – oggi – condiviso dal genere umano nella sua interezza? Al contrario perché nel corso dei secoli si sono sviluppate culture, ideologie, religioni basate proprio sulla necessità di recidere questo legame? Che cosa della terra fa paura alle élite dominanti? Temono quale pericolo sconosciuto?
La necessità del dominio è evidentemente un elemento strutturale per la borghesia, gli agrari (si quelli che vivono delle rendite prodotte dalla terra) per gli azionisti ed i membri dei consigli di amministrazione. Imporre il dominio sulla terra è parte fondante del dominio di classe. Forse le classi subalterne hanno un’attitudine differente? Non ci sono molte manifestazioni di un’attitudine diversa nel corso della storia occidentale e soprattutto non mi sembra emergere tra la classe operaia, formata all’origine da gente che fuggiva dai campi e dal servaggio, un ripensamento sul rapporto con la terra e la sua sistematica distruzione operata dal modello industriale.
La “gente dei campi”. Che strana espressione per indicare chi, nei campi, ci lavora per un salario o un pezzo di pane. Servi spesso di un padrone, poco importa se visibile o invisibile. Oppure combattenti di una battaglia lunga secoli per difendere la loro autonomia, sempre in bilico tra schiavitù, servaggio e sopravvivenza. “La gente dei campi”, non ha un nome, è invisibile o narrata, quasi mai si narra. O si dà un nome. I molti che parlano in suo nome arretrano davanti alla questione del rapporto tra “la gente dei campi” e la terra. Nel processo di evoluzione di questo rapporto nel tempo dell’industrializzazione dell’agricoltura e della sua finanziarizzazione tutto sembra riassumersi nei parchi tematici, nella
pubblicità e finalmente nella falsa rappresentazione di una merce (“asset”) – la terra – da vendere o comprare. Quando al terra diventa un asset gli esseri viventi, umani o no, spariscono. Sono cancellati, rimossi. E che dire del vento e del sole, parte integrante della terra. Che fine fa la luna crescente o il brillare delle zolle arate di fresco? Ed il richiamo delle pecore o il rumore caratteristico di un vecchio trattore a cingoli durante le arature autunnali?
Spesso ho letto “e sui campi s’alzò il silenzio”. Non è vero. Nei campi non c’è mai silenzio. Né di notte né di giorno. Ci sono canti, suoni, fremiti, scricchiolii ed altre vibrazioni che producono suoni. C’è di sottofondo un soffio impercettibile, il respiro della terra che cambia di tono con il cambiare delle stagioni. Dopo mesi di siccità, la terra si spacca, reclama l’acqua, le fratture che tutti possono vedere mandano piccoli richiami che quasi nessuno sente più. E la durezza del campo rumoreggia quando viene rotta da un aratro o fratturata dai dischi di un morgano o da un ripuntatore. Scie sonore che, se fossero raccolte, diventerebbero canti. Canti della terra.
Il legame rotto, sbriciolato sotto i colpi del consumo di suolo, della sterilizzazione della vita dentro i campi, della desertificazione umana e di molti altri esseri viventi. Come un profumo disperso nell’aria, difficile da riesumare, il legame rotto richiede sforzi quasi impossibili da sostenere per poter tornare a vivere nel quotidiano.
Quello che ci viene presentato, riproposto o imposto è solo uno slogan pubblicitario. Una trappola che incanta il bisogno sopito, nascosto, a volte negato, di mantenere nel proprio immaginario il paesaggio agrario, un albero con i frutti, le pecore al pascolo, l’olivo millenario, le vacche all’alpeggio. O le tavole imbandite al sole o sotto la pergola.
Raramente appaiono uomini e donne al lavoro, e – comunque – mai inquadrati affaticati, sudati, sporchi o puzzolenti per i lavori in stalla. Sempre sorridenti anche se ricoperti di debiti o sull’orlo del suicidio.
Inquadrati con un bel taglio di luce, con qualche riferimento alla modernità o al passato già sepolto, presentano le loro storie individuali, eroiche. Ma è risaputo : non un’azienda agricola, non un agricoltore o agricoltrice è solo la storia di se stesso o di se stessa. Quello che si muove nei campi, che vi cresce o vi muore è il risultato di una dinamica impossibile da arrestare, una dinamica collettiva nel senso più ampio, sistemico e complesso. Ridurre a sintesi, rendere individuale è un imperativo proprio alle élite dominanti, incapaci di assumere il confronto con quanto è il risultato di dinamiche collettive. Esigenza ripetuta dalla ricerca disperata di figure simbolo a cui attribuire qualità uniche, miracolose. Nella cultura occidentale la ricerca della sintesi, del riduzionismo sembra quasi un obbligo. Il risultato è – spesso – una rappresentazione che solo coglie alcune piccole fette della realtà, quasi fosse un salame immobile.
Infatti, si sono accumulati nel tempo pile di saggi sull’ “immobilismo delle campagne” che poi era il solito modo un po’ vigliacco per non dire l’immobilismo delle donne e degli uomini che vivono lavorando la terra. Al contrario, i contadini debbono continuamente muoversi, innovare: così come ogni stagione non è mai identica a se stessa, ogni seme riseminato non dà mai una pianta identica a quella che il seme ha prodotto. Questo continuo movimento, aggiustamento, instabile continuo cambiamento è di sicuro l’effetto dell’interazione tra il lavoro e la natura. Ma non solo. E’ anche il risultato della dinamica delle forze sociali, economiche, culturali, religiose, dei rapporti tra le classi sociali. Dinamica che crea o distrugge vite, sistemi ecologici, territori, fino ai microrganismi che fanno vivere la fertilità della terra.
Dinamica che provoca resistenza. Lotte per la sopravvivenza. E ancora innovazione. Cambiamento. Vittorie e sconfitte. E’ di sicuro un cammino lungo millenni, quello dell’agricoltura contadina, quello di miliardi di donne e uomini che hanno sfamato e continuano a sfamare il mondo lavorando con la terra e non contro di essa.
Ma resta difficile da spiegare.
Autore: Antonio Onorati